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PROLOGO DA LA PRIMA ANIMA - IL RITO


Prologo da La Prima Anima - Il Rito


Non poteva essere vero.
Doveva esserci una spiegazione. Doveva.
Lei non se ne sarebbe mai andata in quel modo. Mai.

Avevo le membra avvolte in una morsa straziante di tensione. La bocca secca e un nodo in gola che impediva all’aria di raggiungere i polmoni, soffocandomi. Il suo letto preoccupantemente sfatto e le parole di quelle due donne, all’orfanotrofio, mi avevano precipitato in un buco nero di angoscia.

Non poteva essersene andata davvero senza dirmi niente, come se la nostra storia non fosse stata altro che inutile spazzatura senza valore da gettarsi con indifferenza alle spalle. Non una parola, non un accenno, nemmeno uno. Ma perché? Perché?

Avevo creduto in noi, nel nostro amore, più che in qualsiasi altra cosa in tutta la mia vita. L’amavo come un pezzo della mia anima, più di me stesso, più della mia libertà, più di ogni altra cosa. E per merito suo, solo ed esclusivamente per merito suo, quella dannata prigione in cui vivevo, per la prima volta da quando ero nato, aveva smesso di opprimermi similmente a delle cinghie che, imprigionandomi il corpo, mi straziavano anche l’anima. Quella gabbia che mi condannava a una vita da recluso, insieme a lei, improvvisamente, mi era bastata. Di colpo mi ero sentito integro, soddisfatto, completo... follemente felice.

E ora il dubbio mi toglieva l’ossigeno. Tremavo nel corpo e nella mente, balzando sopra i tetti delle abitazioni, superando quasi in volo i canali di quella città puzzolente con il vento che mi feriva gli occhi e la pelle del viso.

Arrivai in vista di piazzale Roma e aguzzai la vista. Mi fermai sul tetto di un edificio e spostai lo sguardo in modo spasmodico fra le persone che affollavano le fermate degli autobus e quelle in attesa di un taxi o di un mezzo privato.

Non c’era.

Lei non c’era.

Forse era stato tutto un terribile malinteso. Forse avevo capito male, lei era stata solamente spostata di stanza e io mi ero precipitato lì come un idiota per niente. Oppure... Oppure ero arrivato tardi e lei aveva già abbandonato la città.

Emisi un gemito involontario che uscì con un sussulto dal petto. Strinsi e aprii più volte le mani con i palmi umidi, cercando, scrutando ancora tra i volti di quegli sconosciuti, alla ricerca di quel viso che mi era diventato più caro e familiare del mio. Poi le chiusi fortemente a pugno e, saltando, mi spostai in direzione del ponte della Libertà, avvertendo con un brivido il sudore freddo che imperlava la fronte e bagnava fastidiosamente la schiena e le ascelle. Superai il grande spiazzo asfaltato, indirizzato verso l’unica strada che abbandonava la città, ma percorsi solo pochi metri che... impietrii come se avessi ricevuto un violento cazzotto allo stomaco. Atterrai sopra un alto lampione e il mio mondo parve ribaltarsi. Ogni certezza, solamente una quindicina di minuti prima solida e intatta, si sgretolò similmente a una statua di terra ormai secca esposta a un torrido e implacabile sole.

Lei era lì: i suoi lunghi capelli sciolti, le gambe avvolte nei suoi jeans preferiti, i suoi immancabili anfibi che le conferivano un’aria da dura.

La vidi chinarsi, entrare in una scalcagnata utilitaria blu scuro mentre dal cielo iniziavano a cadere grosse gocce di pioggia. Ritirò le gambe dentro all’abitacolo e chiuse lo sportello. Sentii come se con quel gesto lei stesse serrando fuori il suo passato per un nuovo inizio. I brutti giorni trascorsi dopo l’incidente all’ospedale, i ricordi frammentari che la confondevano, l’orfanotrofio che odiava, il bullismo e la violenza dei suoi compagni, quello schifoso di Andrea, ma, in quel modo, inevitabilmente, anche me.

Anche me...

La vettura partì e il mio cuore si bloccò nel mezzo di un battito, lasciandolo incompiuto. Un urlo uscì dalla mia bocca immediato, potente, disperato. «Jess!».

Mi buttai all’inseguimento dell’automobile, pregando Iddio di raggiungerla prima che oltrepassasse la barriera. Dovevo fermarla, bloccarla. Imporre a Jessica di spiegare.

Chiamai ancora il suo nome, nonostante fossi conscio che non potesse sentirmi. Non da quella vibrazione che mi rendeva impercettibile agli umani.

Aveva temuto che parlandomi dell’affidamento avrei provato a dissuaderla? Che avrei provato a trattenerla? Era per quello che aveva taciuto? Il desiderio di andarsene era stato per lei più importante del nostro amore? E io, per lei, alla fine, non ero valso neppure una misera parola di chiarimento? Un addio? Ero stato per lei così maledettamente insignificante?

Mi spinsi in avanti con più forza, entrando in affanno, raggiungendo una velocità impossibile per un comune essere umano.

«Jess!», strillai in un grido straziante e acuto che mi causò dolore alla gola.

In mezzo al petto sentivo un foro che andava espandendosi diventando sempre più pesante e bruciante ogni istante che passava. Il cuore batteva a un ritmo sostenuto che non avrebbe retto ancora per molto.

“Jess!”, gridai nella mia testa continuando ad avanzare, allungando un braccio per espandere dalle mie dita propaggini d’aura che potessero arrivare prima di me al veicolo e colpirlo, anche con violenza, se necessario: l’importante era che il conducente sentisse un urto abbastanza forte da decidere di arrestare il mezzo.

I raggi perlati si propagarono rapidi dalla mia estremità come tentacoli, protendendosi similmente a lunghe appendici impalpabili. Saettarono nello spazio che mi divideva dall’utilitaria, avvicinandosi alla mia meta, approssimandosi a quella macchina che si stava portando via senza alcuna pietà la mia vita. Pochi centimetri ancora e l’avrebbero raggiunta. C’erano quasi. Concentrai in quella energia vibrante tutto me stesso. Avvertii la mia anima e le mie speranze estendersi insieme a lei.

“Jess... Jess!”.

Ma poi... poi impattai brutalmente contro la barriera.

Il respiro si mozzò nei polmoni e sentii come se mi fossi schiantato contro un muro di cemento invisibile. Caddi all’indietro, atterrando malamente sull’asfalto, picchiando duramente il capo. Gemetti per un istante, dolorante e stordito. Quindi, riprendendo lucidità, sollevai di scatto il busto, sostenendomi sugli avambracci. La pressione sanguigna cadde in picchiata e la bocca si schiuse in una smorfia di panico alla vista dell’utilitaria che, implacabile e ignara della mia presenza, si allontanava.

«No!», urlai.

Mi alzai immediatamente ed eseguii senza riflettere un passo in avanti, protendendo nuovamente il braccio in un disperato tentativo di forzare e superare la barriera. Quest’ultima oppose resistenza e io avvertii la pelle spaccarsi e lacerarsi in più punti del corpo, iniziando a sanguinare. Non arretrai e, al contrario, spinsi più forte, puntando i piedi, tentando di piegarmi in avanti e avanzare. I denti scoperti e serrati, i muscoli tesi allo spasimo, gli occhi incollati sulla nuca di Jessica che intravedevo appena attraverso il lunotto della macchina che diventava ogni secondo sempre più lontana e irraggiungibile.

Sulla fronte si aprì un taglio profondo, come sulle guance e fiumi di sangue presero a inondarmi il viso, quasi accecandomi. Tre unghie della mano si spezzarono e sollevarono di scatto, strappandomi un grido. Angosciato urlai, urlai di disperazione. Mi buttai in avanti, quasi impazzito, ma la barriera mi trattenne, impedendomi di compiere anche solo un ulteriore passo. Avvertii una lacerazione nel petto e proruppi in uno strillo roco più simile al verso di un animale selvaggio che a quello di un umano. Poi il corpo mi abbandonò. Le gambe cedettero e rovinai a terra sulla spalla sinistra, in una piccola pozzanghera composta dal mio stesso sangue mischiato alla pioggia che, adesso, scrosciava con insistenza. Il respiro si era mutato in un rantolo flebile, superficiale, appena accennato. Non c’era una singola cellula del mio corpo che non doleva. Non riuscivo più a muovermi.

«Jess!», sussurrai senza quasi spostare le labbra, continuando a fissare la strada che si estendeva davanti a me e lungo la quale non scorgevo più, nemmeno in lontananza, la sagoma dell’utilitaria. La mente divenne torbida, i pensieri confusi e sconnessi. In bocca sentivo il sapore ferroso del mio stesso sangue che mi soffocava. La vista si appannò e una lacrima, staccandosi dalle ciglia, scivolò sull’asfalto. Dunque un’ombra di tenebra ridusse il campo visivo fino a spegnerlo, dopo non ci fu più niente.

 

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